DJ Buffa Buffarini

Dopo la recente scomparsa di icone musicali come Bowie e Lemmy, il disk jockey vicentino riflette sullo stato (pietoso) dell’arte


Negli ultimi anni stiamo tristemente assistendo a una moria di artisti: da Lemmy a Lou Reed a David Bowie, da Lucio Dalla a Pino Daniele. Ma chi raccoglierà il loro testimone? Chi saranno i mostri sacri del terzo millennio? Lo abbiamo chiesto a uno che di musica se ne intende: Carlo Buffarini, in arte Buffa Doc dj, chimico prestato alla consolle che da vent’anni fa ballare i giovani vicentini.

«Effettivamente è in atto un’ecatombe. Gli unici che resistono sempre sono i Rolling Stones, che andrebbero studiati a livello antropologico. Però, come ho scritto sul mio profilo Facebook, “il rock sta morendo solo sulla terra, non nei nostri cuori”. Chris Martin, il cantante dei Coldplay, in un’intervista recente ha dichiarato che il rock è morto e che il futuro della musica sta nelle nuove sonorità. Di certo è morto per i Coldplay, a giudicare dal loro ultimo disco che come qualità è inferiore a “Malaterra” – con tutto rispetto per Gigi d’Alessio. La musica è un’arte, un mezzo di espressione come la pittura o la poesia, e il problema della musica moderna – continua Buffarini – dipende dalla crisi all’origine del flusso che la alimenta, lo “spleen” che dà inizio al tutto. Non è mancanza di valori o di obbiettivi. Quello che manca ai giovani occidentali è la possibilità di intraprendere percorsi di vita, di fare esperienze che li mettano alla prova. La maggioranza dei ragazzi d’oggi ha tutto a disposizione con un click, non vive grandi crisi interiori come è stato a partire dagli anni ’60 fino ai ’90».

Il discrimine è la tecnologia, l’uso spasmodico del web (quella che per altre voci del panorama musicale locale porta i ragazzi a spegnere la curiosità e ad essere troppo sedentari, anche psicologicamente, e a non seguire i live delle band underground). Non a caso, «l’ultima grande vampata del rock che ha prodotto grandi artisti è stata il grunge, agli albori di internet, e anche in quel caso si tratta sempre di figure travagliate. Una delle icone di quel periodo, Scott Weiland degli Stone Temple Pilots, è morto poche settimane fa e soffriva di schizofrenia, come David Bowie». Non c’entrano quindi i discorsi tecnici o che, come si sente dire, ormai è già stato fatto tutto. «È la massificazione che sta ammazzando la musica, livellando le personalità artistiche. Per capirlo, basta andare su Billboard e confrontare la classifica degli album più venduti nel 1995 e nel 2015. Il paragone, a livello di personalità e spessore degli artisti, è imbarazzante: vent’anni fa c’erano Michael Jackson, Alice in Chains, Pink Floyd, Tupac, mentre oggi trovi Justin Bieber, Taylor Swift e Adele». Il dj ne ha anche per la tanto osannata cantante inglese: «è una merda tanto quanto gli altri. Non è niente di che. È solo una brava interprete, ma non è un’artista».

Come dire: non bastano bei testi e arrangiati perfetti, se l’obbiettivo è solo quello di fare soldi. Purtroppo, però, oggi come oggi «le uniche possibilità vengono date ai concorrenti dei talent show, spettacoli abominevoli, che sono la massima espressione dei concetti espressi finora: completa assenza di profondità, nessun vissuto, tutto finto e solo per vendere quattro dischi.
Non vorrei dirlo, ma “ai miei tempi” l’esperienza della musica veniva vissuta nella sua totalità: usciva un disco, ascoltavi il singolo in radio, ti incuriosiva, compravi il disco o il cd, sfogliavi il booklet e leggevi i testi, leggevi le interviste riviste di settore, come Rockerilla o Rumore, guardavi i videoclip e andavi al concerto. Oggi invece è in atto un altro tipo di commercializzazione. Anche alla radio è difficile che passi qualcosa che si elevi rispetto alla mediocrità generalizzata. La maggior parte delle hit è costruita a tavolino, un prodotto liofilizzato».

Anche decidendo di ascoltare qualcosa di alternativo o grandi autori passati, il processo cognitivo è estremamente difficile, perché non è più graduale come una volta. «Se cerchi David Bowie in rete, escono fuori 24 album, non so quanti singoli e mille altre informazioni. Non è possibile assorbire in modo organico tutto questo. E così il nativo digitale vaga per la rete. Trova qualcosa che viene condiviso oppure scarica un’intera discografia, ma non sa collocarlo, non sa apprezzarlo. Io insegno chimica alle superiori e posso dire che i giovani sono talmente sommersi di informazioni che non riescono a gestirle in maniera critica. Non ne sono in grado. In discoteca mi è capitato di conoscere un ragazzo convinto che la scritta Ramones sulle magliette fosse una marca di vestiti perché l’aveva indossata David Guetta a Ibiza».

Un aneddoto che lascia poche speranze per questa gioventù – colpevolmente o incolpevolmente – sciagurata, e che apre un altro capitolo, quello dei disk jockey, da molti visti come corresponsabili della crisi della musica. «La figura del dj si presta ancora di più della band a essere massificato. Ci sono dj- produttori che vendono milioni di copie con pezzi scritti da ghost writer e alcuni, come lo stesso David Guetta, hanno addirittura delle persone che durante le serate mixano al posto loro, che a quel punto sono lì solo per metterci la faccia. Questi hanno ammazzato la musica e anche l’immagine del dj, che è un artista tanto quanto il musicista». Il segreto del vero dj invece è l’empatia con il pubblico: «basta uno sguardo per capire che tipo di pubblico ha davanti e come farlo divertire. Non mette i dischi che piacciono a lui, ma quelli che sa che vuoi ascoltare, per farti divertire. È un intrattenitore, come il comico. E come per i comici si tratta di una capacità innata».

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