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Fenomenologia dell’ultima mania di massa


La Pokémon mania impazza. Basta uscire dalla porta per incrociare giocatori di strada, mentre sui giornali, in tv e soprattutto sui social network si sprecano i commenti sprezzanti, molti dei quali vedono nell’incredibile successo dell’app per smartphone il segnale dell’ammattimento definitivo delle masse. Onestamente risulta difficile comprendere le critiche aprioristiche verso Pokémon Go o i giudizi su chi ci gioca.

Prima ancora di stabilire se si tratti davvero di una trappola per rincoglioniti, o dell’ultima frontiera dell’era digitale, vale la pena ricordare che il fenomeno Pokémon è di lungo corso.

L’apparente isteria generalizzata non si riduce all’innegabile aspetto innovativo di un semplice gioco online, ma attinge da una subcultura radicata nell’immaginario infantile e adolescenziale degli ultimi 20 anni. Tanto è passato dal lancio del fortunato videogame per Gameboy da cui tutto ha avuto inizio: la prima invasione dei “pocket-monster” risale alla seconda metà degli anni ’90, quando giochi di carte, serie tv e merchandising di ogni tipo, forma e dimensione che hanno fatto letteralmente impazzire le giovani generazioni di tutto il mondo.

Il franchise di Nintendo è forse il più riuscito esempio di intrattenimento cross-mediale e transgenerazionale, concepito appositamente per acchiappare i ragazzini come nella finzione ludica gli allenatori di Pokémon catturano mostriciattoli. E oggi più che mai il motto “gonna catch ‘em all”, devo prenderli tutti, ha una valenza ambigua: è riferito ai mostri, o agli umani?

Negli anni, anche dopo lo tsunami inziale, i Pokémon non sono mai spariti del tutto, ma hanno continuato a vivere, o meglio a rivivere, nei nuovi titoli Nintendo, su console sempre più evolute, dal Nintendo DS alla Wii, e con creature sempre nuove: dalle 151 specie della prima generazione, quelle attualmente disponibili nel gioco per iOS e Android, il numero è cresciuto fino a 722 – ne consegue che anche Pokémon Go può contare su un ampio bestiario per decine di espansioni nei mesi e negli anni a venire.

Insomma, dall’America all’Estremo Oriente chi ha meno di 30 anni ha una certa confidenza con l’universo dei Pokémon e ricorda dall’infanzia alcuni dei loro improbabili nomi. Un dettaglio fondamentale per capire il successo dell’applicazione: il target di riferimento è infatti lo stesso di altri fenomeni online come Snapchat e – agli albori – Instagram.

L’ultimo colpo di genio di quei diavoli di Nintendo e Niantic è stata la scelta di rilasciare il social game nel momento più propizio: in piena estate, quando i bambini sono a casa da scuola e gli adulti (giovani) si trovano in ferie. E il discorso vale anche per chi è costretto a rimanere in città. Anzi, persino di più: mentre i più fortunati si annoiano sotto l’ombrellone, è proprio nell’afosa desolazione urbana che la portata della rivoluzione di Pokémon Go risulta evidente. Definirla tale non è affatto esagerato: per la prima volta nella storia videoludica, i giocatori si sono trovati a dover uscire di casa anziché stare sprofondati sul divano. Per catturare mostri e raccogliere provviste virtuali, infatti, è necessario esplorare il mondo reale, con l’ausilio di una mappa GPS – il principio di base non è dissimile da Foursquare e altri social network simili basati sulla geolocalizzazione.

Il risultato potrà far scuotere la testa a molti, ma allo stesso tempo ha dello straordinario: le piazze e i parchi normalmente deserti delle città di tutto il mondo negli ultimi giorni sono invasi da frotte di tech-addicted. Le palestre e le “poké-stop” dove recuperare equipaggiamenti infatti si trovano in luoghi di interesse e di aggregazione che proprio per questo, a luglio inoltrato, sono percorsi in lungo e in largo da decine di “esemplari umani”, insoliti ma innocui. Ragazzi in bici, gruppetti di amiche, padri coi passeggini, signorine distinte e coppie mano nella mano. Tutti impegnati ad accumulare punti acchiappando animaletti digitali o a conquistare una “palestra” rivale controllata da altri utenti. Centinaia di nerd, anziché giocare rinchiusi in sala giochi o in salotto, lo fanno passeggiando, tra gli sguardi a perplessi e rassegnati di chi porta vanti la propria vita reale.

Generalmente, cellulare alla mano, vagano senza meta come turisti smarriti e all’improvviso si fermano per “tappare” sullo schermo. Non scrivono a due mani come per chattare, non indossano gli auricolari per ascoltare musica, non stanno nemmeno scattando foto a un qualche monumento o scena particolare. Hanno invece localizzato l’ennesimo esemplare di Zubat o Ratata. Se da un lato tutto ciò può apparire effettivamente una follia, il lato positivo è che senza la “Pokémania” dilagante quegli spazi sarebbero vuoti e i giocatori verosimilmente davanti alla tv o al pc.

Quanto durerà? Nessuno può dirlo: magari qualche settimana, fino a settembre, quando la maggior parte di questi curiosi zombie digitali che brancolano per le strade cittadine tornerà a dedicarsi alle routine quotidiane o a perdere tempo in modi più tradizionali. Per il momento il virus dilaga non solo di giorno, anche dopo il tramonto, per trovare creature notturne. Persino a notte fonda i punti di sosta sono presidiati da adulti e ragazzi stralunati, sulle panchine e a passeggio come di giorno, ma con la faccia illuminata dal display.

Ormai sono (siamo) tutti ammattiti? Più probabilmente si tratta di semplice eccesso di entusiasmo per questa nuova diavoleria tecnologica, destinato a scemare col tempo. Per ora, tuttavia, genera notizie di “usi impropri” che effettivamente fanno pensare: dalla conferenza stampa del Dipartimento di Stato americano disturbata da un giornalista intento a giocare, alla lista sempre più lunga di incidenti stradali. Sono però di condotte marginali, che si verificano con ogni nuova tecnologia, come accaduto con l’avvento di internet, dei cellulari e dei social network.

L’importante, tanto per gli appassionati quanto per i detrattori, è ricordare sempre che si tratta solo di un gioco.

(originariamente pubblicato su Vvox)

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