Miriam, attivista dell’Arcigay di Vicenza, racconta la sua esperienza. E difende il ddl Fedeli
In Veneto infuria il dibattito sulla “teoria gender”, che ha visto intervenire politici, prelati, genitori e presidi. Da una parte, i gruppi pro life, parte della Chiesa e i partiti di centrodestra, dall’altra le associazioni per i diritti Lgbt, governo e sinistra fanno quadrato attorno al disegno di legge Fedeli, che introduce l’educazione di genere a scuola. Ma come la pensa chi è in procinto di cambiare genere fisicamente, ed è cresciuto vivendo in prima persona le disparità tra uomo e donna, implicite o manifeste, a scuola e nella nostra società? Miriam, 22 anni, è una giovane transessuale attivista dell’Arcigay Giovani di Vicenza, che da alcune settimane ha intrapreso il difficile percorso per diventare Mirco.
A che età hai preso coscienza di essere “diversa”?
In realtà non c’è un momento preciso. Non c’è stata la classica mattina in cui ti svegli e realizzi tutto. Esistono stereotipi che in quanto femmine o maschi dobbiamo rispettare, perché la società se lo aspetta. Anche il semplice modo di accavallare le gambe cambia da uomo a donna. Io ho sempre provato un senso di inadeguatezza, fino a quando da adolescente mi sono fatta delle domande e sono arrivata a informarmi e capire che non ero la sola persona a vivere questo disagio.
Quando hai deciso di diventare uomo a tutti gli effetti e quali sono le tappe che ti attendono?
Ho preso la decisione un paio di mesi fa, e l’iter vero e proprio è iniziato da poco. Attualmente sono accompagnata da una psicologa in attesa della diagnosi per ottenere la terapia ormonale. La disforia di genere, il senso di inadeguatezza nel proprio corpo e l’identificazione nel sesso opposto, è ancora considerata una patologia secondo il DSM IV, il manuale dei disturbi psichiatrici. In tal senso, la terapia ormonale per il cambio di sesso serve a porre rimedio a questa patologia.
Come è andata quando l’hai detto in famiglia e agli amici?
Devo dire che ho sempre avuto fortuna. In famiglia è andata bene, anche perché mia madre è un’attivista dell’Agedo (Associazione Genitori di Omosessuali, ndr) e lo stesso si può dire con gli amici, che hanno dimostrato interesse ed entusiasmo. Credo che dipenda molto dal modo in cui ci si pone alle persone, perché la transessualità è ancora un tabù, ed è piena di stereotipi: ad esempio, viene associata alla prostituzione e la transizione FtM (“female to male”) spesso non viene nemmeno considerata.
In cosa consiste la teoria gender, secondo quanto ne sai tu?
È una domanda che mi fa sempre molto ridere, perché nessuno ha capito cosa sia. E il motivo è semplice: non esiste. Esistono gli studi di genere, nati in America negli anni ’70 dal femminismo e arrivati da noi negli anni ’80. Sono studi socioculturali su sessualità ed identità di genere. Il movimento femminista emergente sosteneva che non è giusto precludere o imporre atteggiamenti sulla base della differenza uomo-donna.
Quindi quando si parla di “teoria gender”, ci si riferisce in realtà agli studi di genere?
Esatto, si travisano le informazioni. Se mi dicono che l’Oms sull’educazione sessuale intende insegnare ai bambini di quattro anni a masturbarsi, rispondo che non è vero. Basta leggere: nel documento è scritto come gestire una situazione che potrebbe presentarsi all’asilo, visto che a quell’età i bambini scoprono il proprio corpo, ovvero spiegare che non è bene toccarsi i genitali in pubblico, senza arrivare a traumatizzare con frasi del tipo “ti cadono le braccia” o “diventi cieco”.
Cosa significa educare alla differenza di genere e come si fa a spiegare a bambini e ragazzi l’esistenza di queste diversità e la cultura del rispetto?
Il principio di base è di annullare le disparità di trattamento, atteggiamenti talvolta inconsapevoli, tra maschi e femmine. Sia da parte degli educatori, insegnanti e genitori, sia con attività per i bambini. Ce ne sono diverse: ad esempio un gioco con le carte che insegna al bambino che non esiste solo la mamma casalinga, ma che anche il padre può restare a casa mentre la madre è al lavoro. Una realtà familiare molto diffusa nella nostra società.
Uno dei giochi finiti all’indice consisterebbe nel travestirsi con abiti del sesso opposto. È così?
Io da piccola a Carnevale mi travestivo da D’Artagnan e nessuno mi ha mai detto niente. Nessuno obbliga i bambini a vestirsi in un certo modo o a truccarsi. Il gioco prevede di lasciare un mucchio di vestiti al centro della stanza e lasciare i bambini liberi di scegliere quello che vogliono.
La tua vita avrebbe potuto essere diversa con una scuola “educata al gender”?
Se qualcuno mi avesse abituata all’idea che è possibile non riconoscersi nel proprio corpo, avrei vissuto più serenamente tanti momenti della mia vita. Il fatto che questi argomenti siano tabù mi ha sicuramente limitato a livello personale. In ogni caso, è bene precisare che la legge Fedeli riguarda la parificazione tra uomo e donna, non c’entra niente il gender.
Come risponderesti a chi reputa necessario proteggere i bambini dalla “ideologia gender”, definendola una manipolazione delle coscienze e un attentato all’etica?
Direi che prima dei bambini andrebbero difesi i genitori da certe manipolazioni politiche della realtà. Tutto questo trambusto nasce per l’avvicinarsi della discussione sulla legge sulle unioni civili. Questi movimenti nati in Italia si sono già visti in altri Paesi con le stesse modalità, in concomitanza con l’approvazione dei matrimoni gay. È un’ultima spiaggia politica.
(originariamente pubblicato su Vvox)