Dal 2010, il locale alternativo per antonomasia della Città del Santo: «una casa per chi ama esprimersi in maniera diversa, anche provocatoria, ma sempre senza peli sulla lingua»


Beppe “Chelli” Lanna, 43 anni, è uno dei soci dell’associazione culturaleche gestisce il Grind House, tempio padovano dell’underground. Segni particolari: essenzialità, ha pista da ballo, palco per suonare e un banco dj, il tutto per ospitare 180 persone al massimo. Dal 2010 è il locale alternativo per antonomasia della Città del Santo, «una casa per chi ama esprimersi in maniera diversa, anche provocatoria, ma sempre senza peli sulla lingua».

Il nome Grind House richiama il film di Tarantino/Rodriguez. Un riferimento casuale o voluto?
Sono entrato nella gestione del locale quando il nome esisteva già. Non sono stato io a sceglierlo. Immagino che Tarantino abbia avuto un peso nella scelta, ma più che altro il nome deriva da quei vecchi cinema americani anni ’50 che proiettavano doppi o tripli di serie B o C, dove le persone meno ricche e con meno “skill sociali” potevano passare le loro serata. All’interno di questi cinema si creava un ambiente di socialità tra persone che non avevano grandi possibilità di fare altre cose.

Che genere di musica proponete?
Attualmente dedichiamo una serata al mese al dark e alla new wave anni ’80, una all’hard rock/glam rock, un’altra all’elettronica e un quarto sabato “libero”, con i nostri resident dj e qualche live. Il Grind House è aperto solo nel weekend e facciamo quasi sempre live, tranne che per le serate new wave, perché è un pubblico che non ama particolarmente la musica dal vivo. Ce l’hanno proprio proibito i clienti.

La scelta dei generi va a vostro gusto o sono quelli che “tirano” di più?
È una scelta stilistica: tutti noi soci abbiamo l’idea che la musica non deve essere solo un’esperienza musicale, ma deve essere un’esperienza più “multimediale”. Per questo privilegiamo artisti che presentino anche uno spettacolo, un contorno. Una scelta che deriva dai nostri trascorsi: io sono appassionato di un certo tipo di glam rock e di punk, un altro socio viene dal dark… Siamo cresciuti in ambienti musicali con una componente visuale molto importante e crediamo che per un locale sia perfetto proporre questo, in modo che anche la persona che non è un fan al 100% di un certo tipo di musica possa venire a vedere uno spettacolo interessante, qualcosa che generalmente non si vede in giro per altri locali.

Niente musica commerciale, rap, cantautori?
Assolutamente, niente di tutto questo.

Cover band?
Bandite! Riceviamo dalle 15 alle 20 proposte settimanali da tribute o cover band e rispondiamo sistematicamente con un copia-incolla: “Grind House non è interessato. Grazie e arrivederci”. Non ci interessano proprio e anzi vanno contro ogni nostro gusto e l’idea che abbiamo di musica.

La vostra clientela com’è?
Il nostro è un pubblico molto vario. Alle serate dark, ad esempio, non c’è un’età media, si trovano ragazze ventenni vestite in stile goth accanto ad amanti del genere che hanno anche 50 anni, che sono cresciuti negli anni ’80 e vengono ad ascoltare la loro musica preferita. Diciamo che in generale, data la varietà della nostra proposta, anche il pubblico cambia molto di serata in serata.

Padova è anche una città universitaria.
La risposta degli universitari è scarsa. Credo che la nostra proposta non incontri il gusto dello studente medio. La mia impressione è che tra gli studenti vada di moda un genere indie, proprio di certi ambienti hipster, che noi non trattiamo. D’altro canto, la maggior parte degli studenti che frequenta il locale è straniera. Forse perché certa musica è più popolare in certi paesi del Nord Europa. Gli ultimi due che ho conosciuto, ad esempio, erano dei ragazzi inglesi studenti di medicina, che hanno scoperto per caso il locale su internet e sono andati via contenti.

Ci fai il nome di band o artisti italiani che sono saliti sul palco del Grind House?
Per esempio, questa settimana abbiamo avuto The Sade, band di cittadella. Poi mi vengono in mente i Giuda da Roma, I derelitti da Torino, Lester Greenowski da Modena, i Super Horror Fuck da Verona, i Big Swing e i First Black Pope entrambi da Padova. Tutte band underground che meritano. Onestamente, però ospitiamo soprattutto artisti stranieri.

Potendo esprimere un desiderio, quale sarebbe la band o l’artista che più di tutti vorresti vedere sul vostro palco?
Guarda, in realtà “l’artista dei miei sogni” arriverà il 1 dicembre! Io sono un grandissimo fan dei Ramones e come sai sono tutti morti. O quasi. Lunedì prossimo abbiamo in calendario il concerto di Richie Ramone, batterista degli album Halfway to sanity, Animal boy e Too tough to die. Ed è un sogno che si realizza, davvero: un Ramone nel mio locale!

Beppe "Chelli" Lanna


C’è un genere musicale che invece proprio non sopporti?
In realtà sono molto tollerante. Se uno ha delle cose da dire attraverso un genere musicale a me va benissimo. Non mi piacciono molto le cose “finto intellettualoidi”: i grandi proclami di originalità con poca sostanza. Diciamo che non vado pazzo per un certo indie pop intellettuale, anche se non è detto che un giorno non possa scoprire una band di quel genere che mi piace molto. In ogni caso, per me un ragazzo che prende in mano una chitarra e suona qualcosa di origniale è sempre una buona cosa, un miracolo che si avvera.

Tu sei nel giro da parecchi anni, uno degli ultimi veri rocker veneti, si potrebbe dire. Come vedi l’attuale realtà musicale in Veneto?
Non benissimo. Vedo un calo sia quantitativo, nel senso che ci sono sempre meno band e meno locali, sia qualitativo. Non nel senso di quanto sono bravi a suonare, ma manca un po’ di originalità e di voglia di dire delle cose. Di usare la propria musica per dire qualcosa, per esprimere se stessi. In un mondo sempre più uniformato penso che sia bellissimo formare un gruppo per dire qualcosa di diverso, per dare un calcio in culo alla mentalità dominante, invece vedo che questa cosa succede sempre meno. C’è sempre un po’ di rassegnazione. Forse le sottoculture riflettono lo stato di salute della cultura “ufficiale”, non so. Vedo un po’ di tristezza e menefreghismo.

Molti locali storici hanno chiuso i battenti negli ultimi anni, secondo te perché? È colpa della crisi?
Per me c’è qualcos’altro. Come spiegarti? Io non sono entrato nella gestione del Grind House con l’obbiettivo di farci i soldi, magari per chiuderlo fra cinque anni. Io e miei soci abbiamo un lavoro di giorno, perché il locale non ci consentirebbe da solo di vivere. Questo per assurdo ci dà la libertà di fare quello che vogliamo con il locale senza essere per forza condizionati dalla prospettiva della fine del mese. Perché se tu apri un locale con l’intenzione che quello è il tuo lavoro, a quel punto tutte le tue passioni, le tue idee, la tua creatività passano per forza in secondo piano. E quindi farai serate con tribute band, come una delle mille birrerie che ogni sabato sera fanno cover Guns ‘n’ Roses e alla fine chiudi per forza, perché vai in concorrenza con quelle 1000 birrerie e pian piano il pubblico si dimezza e a quel punto fai qualcosa in cui non credi più nemmeno tu e diventa frustrante. Io credo che il punto sia questo: se devi arrivare a fine mese con il locale, che ti piaccia il reggae o il death metal, tu farai cover band di Ligabue. Noi evitiamo come la morte un simile destino ed è per questo che continuiamo a proporre solo
cose in cui crediamo. Se poi alla gente piace meglio ancora, se a uno non piace, semplicemente non viene.

Come è cambiata la scena rock in Veneto negli ultimi 15-20 anni?
La risposta è semplice: la scena rock si è involuta, perché il 90% dei musicisti rock per tirare avanti ha fondato oppure è entrato in una tribute band. Alcuni addirittura in due o tre, anche diversissime tra loro: una fa Foo Fighters, una Vasco Rossi e una Marilyn Manson, l’importante è avere 100 euro a fine serata. Il tutto rinunciando spesso alla propria band che propone musica originale. Anche quelli che cercano di tenere il piede in due staffe, mantenendo sia la propria band sia la tribute, sacrificano la prima per la seconda. Te lo dico per esperienza personale da gestore di locali: ci sono quattro o cinque gruppi che è da un anno che cerco di far suonare da noi e la risposta è sempre “manca il batterista che è a suonare cover”. Oltretutto, così anche il pubblico di queste band va riducendosi, perché suonando due volte all’anno, la gente non sa più nemmeno se esistono ancora.

Insomma, il male assoluto nella scena musicale sono le tribute band?
Sicuramente sì.

Come è cambiato invece il pubblico rispetto ai “vecchi tempi”?
Io lo trovo molto più omologato a tutti i livelli. Quando ero ragazzino, ancora prima di iniziare a suonare, vedevo grandi differenze tra i ragazzi della mia età: c’era il punk, il metallaro, il dark… E ognuno ci teneva a farsi riconoscere in quanto tale.
Anche a livello estetico, c’erano differenze notevoli. Ognuno
cercava una sua ribellione, un suo modo d’essere. Adesso non riesci più a capire a una prima occhiata se un ragazzo ascolta gli Agnostic Front o Fedez. Perché hanno tutti gli stessi pantaloni, gli stessi tatuaggi, lo stesso taglio di capelli… sono tutti uguali. C’è un’omologazione generale, che non risparmia nemmeno la musica. La risposta che odio di più alla domanda “che cosa ascolti” è: un po’ di tutto. Vuol dire non approfondisci niente, ascoltando quello che ti capita. Si ritorna al discorso di prima della rassegnazione. Ecco, con il Grind House noi cerchiamo di creare una comunità per chi resiste.

Quindi l’omologazione sta portando alla distruzione dei generi e sotto-generi musicali?
Assolutamente sì. Direi di più: delle sottoculture. Sociologicamente si chiamano così. Sto lavorando a un documentario su questo tema, intervistando persone che sono appartenute o appartengono a delle sottoculture: metal, skin, punk. Ognuno di loro ci racconta il proprio percorso di vita e alla fine le risposte sono sempre le stesse: le persone partono da una crisi e arrivano alla soluzione attraverso la scelta della loro identità, qualsiasi essa sia. Il che è molto interessante. Ecco se tu rinunci a questa scelta e semplicemente ti omologhi, la crisi non la superi. Resterai sempre sospeso in questa vita.

Secondo te le nuove tecnologie aiutano i locali e gli artisti nella promozione e nella diffusione di musica ed eventi?
I social network aiutano sicuramente i locali. Il 90% della promozione che facciamo è sui social media. Non facciamo più flyer, volantini, facciamo pochissimi manifesti. Con i social network possiamo raggiungere facilmente tantissime persone e tenerle informate sui nostri eventi. Il 50% della clientela del Grind House viene da fuori Padova. Per me è difficile andare a Rovigo o nel trevigiano a lasciare i volantini nei bar. O se ancora esistessero la fanzine, la notizia su Richie Ramone verrebbe pubblicata mesi dopo il concerto. Con i social media è tutto molto più immediato.
Per le band vale forse il discorso contrario. Chiunque può persino fare finta di avere una band: prende quattro amici, si fa una foto per la pagina social e via. Per questo è molto difficile trovare band su internet, perché non sai a cosa vai incontro.

E per quanto riguarda le nuove tecnologie di download e file sharing? Penso ad iTunes, Spotify e alle tante app per la condivisione di musica per pc e smartphone.
Su questo sono molto vecchia scuola: non uso nulla di tutto ciò, i dischi li compro fisicamente e non scarico niente. Posso però dirti che da quando è iniziata questa rivoluzione tecnologica i gruppi di medio livello, soprattutto stranieri, vendendo molti meno dischi fanno molti più tour per sopravvivere, perché l’unica maniera che hanno per guadagnare è andare in giro a suonare nei club e vendere magliette ai concerti.

Come è diversa la scena veneta dal resto d’Italia?
Non trovo enormi differenze. Una cosa che ho notato è che in Veneto il pubblico è sempre molto freddo. Magari a uno piace il concerto che sta vedendo, ma non lo fa vedere, forse perché ha paura di fare brutta figura se fa un urlo o batte le mani troppo forte.

E l’Italia rispetto all’Europa, invece?
Qui la situazione è tanto diversa. Ho avuto modo di suonare a Monaco, Budapest, Stoccolma e la risposta era molto
differente da qui. Mi rendo conto che però si tratta di metropoli, quindi forse sarebbe anche ingiusto paragonarle a Padova o a Vicenza.

A cosa è dovuta questa differenza, secondo te?
Penso sia una questione culturale, ancestrale. Il sud dell’Europa, Spagna, Grecia, Italia, Francia, non è mai stato il centro nevralgico del rock ‘n’ roll. Non c’è mai stata questa grande passione per la musica rock, ogni tanto può nascere qualche fenomeno per quattro o cinque anni, ma sono fuochi di paglia. Invece nel nord Europa è molto più sentita. Ovviamente, l’Inghilterra è un caso a parte, lì il rock ce l’hanno nel sangue, avendolo inventato loro. Londra è un altro pianeta: ogni 50 metri c’è un pub con musica dal vivo e trovi il ragazzo punk seduto accanto al signore che si beve una birra che ascolta il gruppo che suona.

Secondo te Italia è possibile un cambiamento di mentalità in tale direzione? Se sì, come potremo arrivarci?
Io ho aperto un locale! Può sembrare una risposta ironica ma non lo è. Ho provato ad aprire un posto che fosse diverso, divertente, che proponesse cose che altri non avevano. Finché c’è gente che viene, può darsi che gli cambi qualcosina in testa e magari dica “adesso metto in piedi una band”, oppure “faccio un programma in radio”. La speranza è quella.

In definitiva, il rock è morto?
No, il rock non morirà mai.

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